lunedì 20 giugno 2011

il giovane Barra


Ho sempre immaginato che i miei ultimi istanti di vita sarebbero stati qualcosa di tranquillo. Un semplice trapasso, luminoso, o forse scuro, chi lo sa. Comunque non doloroso. Tutt’al più una vertigine, un viaggio extracorporeo. Quasi divertente, magari. Ma non è andata proprio così. Mi sono sempre immaginato su di un letto, bianco. Meglio ancora sulla sabbia, sempre bianca, di una spiaggia, in un torbido e dolce stato confusionale, nebbia senile, ricordi di figure del passato ad allietarmi. E invece ero a terra, una terra dura e ruvida che non dava tregua alla mia schiena, una terra che in nessun modo si piegava sotto il mio peso. Anzi, sembrava che alla fine la mia colonna vertebrale avesse ceduto alla tirannia dell’asfalto e vi si fosse afflosciata come su di un letto di spine. Il sangue caldo sul corpo. Ma è mio questo sangue? Potevo sentirlo ma non avrei saputo dire da dove sgorgasse né che parte del corpo mi bagnasse. Ricordo di aver pensato che fosse come quando al mare si passeggia sul bagnasciuga e dopo un po’ si fa più caso se la spuma delle onde ti solletica la pianta dei piedi o, più audace, è arrivata ad accarezzarti le ginocchia. E, a proposito di ginocchia.. non le sentivo più. Non avrei sputo dire da quanto ne avevo perso la percezione, non ero nemmeno sicuro di avere ancora le gambe attaccate al corpo. Ricordo che all’inizio avevo provato un dolore talmente acuto  da essermi sentito catapultato in un’altra dimensione, un mondo candido, quasi grigio, intenso di suoni pungenti e insopportabili. E poi eccomi lì, a terra, in quell’imbarazzante e inedita intimità con la strada, l’universo lattiginoso, che poco prima mi aveva attanagliato, aveva ben presto provveduto a risputarmi nella realtà senza fare troppa attenzione a farmi cascare in piedi. Una gelatina melmosa e insensibile, un verme, uno sparuto invertebrato, con le gambe (sempre naturalmente che ci fossero ancora), ridotte a due spaghetti scotti, guardavo il cielo, non potendo vedere nient’altro. Era coperto ma, diavolo, come brillava. La luce filtrata dalle nuvole plumbee era abbagliante. Gli occhi, due pesanti e vitree palle fisse che premevano sul cervello, ne erano totalmente attirati, ipnotizzati da quegli spettri luminosi. E nel mezzo di cotanta inebetita contemplazione, ricordo di aver iniziato a sentire dei brusii, borbottii che lentamente risalivano dagli abissi, rumori ovattati che mi cullavano, impalpabili braccia di Morfeo. Solo allora ho chiuso gli occhi per lasciare che mi si conciliasse meglio il sonno. Ma in quel momento il ronzio ha preso a farsi più chiaro, come un soffio di vento che, dopo aver attraversato la prateria, arriva, sibilo perfetto, al tuo orecchio. Si è affinato sempre di più, sembrava prendere il suono di una voce. Di più voci. Di calpestii.
‘.. o mio Dio, o mio Dio.. gli è arrivato addosso a tutta velocità, l’ha investito!.. oddio..’
‘ chiamate quella cavolo di ambulanza!’
Ma che stava succedendo? Sembrava che ci fosse di che essere preoccupati. Ma non vedevo nulla, sentivo solo che iniziava a fare più freddo. Stava scendendo chiaramente la sera. Eppure, tutta quella luce. Chi erano quelle persone che mi saltellavano attorno? Erano spaventate, per me. Ho  tentato un sorriso, ricordo. Non so che aspetto abbia avuto a vedersi da fuori, uno spasmo facciale forse, di pochissimi istanti comunque, visto che ho improvvisamente e chiaramente sentito i miei polmoni schiacciati da un macigno. Il sangue mi è uscito dalla bocca.  Le palpebre non hanno retto, pesanti, come piombo che aveva deciso di occludere ai miei occhi la vista del mondo. Ed è stata l’ultima volta che l’ho visto. Da quel momento non ho più avuto coscienza. Non so dire quanto tempo sia passato, cosa sia successo nel frattempo. Posso dire a posteriori di essere stato portato di corsa al pronto soccorso che stavo ormai affogando nel mio sangue. Per le gambe non c’era speranza. Il polmone destro era collassato e non poteva in alcun modo far fronte all’emorragia. Sempre senza sensi sono stato operato d’urgenza. Sono deceduto alle 16.38 di quel giorno.

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